Cammino del Fiume 1
l Cammino del Fiume segue il corso del Volturno nella parte a monte della ferrovia, dal Guado S. Nicola, in prossimità della frazione di Sant’Eusanio, fino alla confluenza del Vandra, toccando luoghi che hanno avuto una intensa, continua e significativa frequentazione dell’uomo sin dalle epoche preistoriche grazie a due favorevoli fattori. Il primo è la particolare collocazione geografica di questo lembo di territorio come luogo di naturale transito e obbligato incrocio delle grandi vie di comunicazione tra Campania e Lazio da una parte e Abruzzo e Molise dall’altra (in sostanza, le odierne strade statali 85 “Venafrana” e 158 “Della Valle del Volturno”). Il secondo è la ricchezza d’acqua, e quindi la fertilità, per la presenza dello stesso Fiume, degli importanti affluenti Vandra e Lorda, e di numerose sorgenti e corsi d’acqua secondari.
È, quindi, un territorio ricco di storia e di resti archeologici, oltre che di bellezze naturali, significativamente segnato dal corso dell’importante Fiume di cui già in epoca classica era nota la violenza devastante delle sue piene, capaci di “rapere terras et roteare silvas”, come scrive il poeta Stazio (Silvae, III, 79).
Panorama degli anni ‘50
Nelle foto panoramiche scattate fino agli anni ’70 spicca, nella lettura del paesaggio, il Volturno con il suo imponente alveo ghiaioso ancora immune dallo scellerato uso che ne è stato fatto successivamente.
Panorami ripresi dallo stesso punto di Roccaravindola Alta
Nei secoli, infatti, l’uso del fiume e delle sue risorse è stato sempre intenso. Pescosissimo, le sue acque sono sempre state ricche di schiami (i cavedani), avari (i barbi), ruelle (le arborelle), ma anche di anguille, capitoni, gamberi e della pregiatissima ed elegante trota fario, che venivano catturati con le tecniche più disparate e in quantità smisurate. Sulle sue sponde vegeta il vimine, con i cui lunghi rametti abili mani intrecciavano, con arte antichissima, indispensabili cesti, panieri, grate. Era anche un frequentato luogo di pascolo per capre e vacche.
Il letto del Fiume con gli ampi “vrecciari”
Antichi usi del Fiume. Sullo sfondo la diga della vasca di laminazione costruita negli anni ’70 dal Consorzio di bonifica
Dalle fine degli anni ’70, invece, è iniziata una frenetica opera di distruzione dell’habitat unico che i millenni avevano creato. Indiscriminati prelievi di ghiaia e di buona parte della portata d’acqua hanno trasformato il nostro Fiume in una striscia ormai del tutto illeggibile dall’alto e spesso irraggiungibile o impercorribile per la presenza di una folta e impenetrabile vegetazione ripariale. Il Fiume così, in poco più di trentennio, ha subito una profonda alterazione da risultare oggi irriconoscibile.
Tanti, comunque, sono i resti e i segni del passato che ancora sono presenti e che consentono, grazie a quanto finora fatto dalla ricerca archeologica (ma tanto deve essere ancora fatto) di ricostruire un quadro degli insediamenti umani via via succedutesi nel corso dei secoli.
Il Cammino del Fiume parte allora dal Guado San Nicola, punto di diramazione del torrente alimentato dalla sorgente San Nazzaro, e crocevia delle strade comunali che raggiungono tutte le fertilissime zone che costeggiano il Fiume.
La formazione di “calcareous tufa” di Guado San Nicola
E a Guado S. Nicola si è subito di fronte a una particolarità “geologica”: un singolare “terrazzo fluviale” di calcareous tufa, cioè un relitto di travertini deposti sulle essenze idrofile (muschi, canne, ecc.) dalle acque di cascata, fredde e ricche di anidride carbonica, del corso che nasce dall’ampia risorgiva di San Nazzaro. Questa formazione emerge dal piano dei terreni circostanti, ancor più nettamente a seguito degli scavi di livellamento fatti nel 1843 e nel 1905 per migliorare le possibilità di irrigazione dei terreni a valle di località Camposacco e Paradiso.
Da qui il Cammino, quindi, prende la strada comunale che transita sul colle dove sorge il cosiddetto “Casino di Don Felice” – i “casini”, o “casarini”, erano le residenze di campagna di facoltose famiglie monterodunesi – di recente rilevato, con l’intera tenuta, da una importante azienda vinicola locale.
Il Casino di Don Felice
Nel Casino di Don Felice sono murate alcune epigrafi di grande interesse e resti lapidei di importanti costruzioni di epoca romana.
Ingresso del Casino con le epigrafi murate
Lo studioso monterodunese Canonico Francesco Scioli (1829-1911), nipote del proprietario del Casino, nel suo Schema Grafico n. 2 – Epoca Sannitico-Romana, annota che tali resti provengono dalla località Cupelle.
Le epigrafi, comunque, furono catalogate da T. Mommsen (1817-1903) nel Corpus Inscriptionum Latinarum (C.I.L.) e commentate dall’archeologo napoletano Raffaello Garrucci (1812-1885).
La lettura che ne dà il noto storico e archeologo R. Garrucci, in Storia di Isernia, Forni Editore, rist. anast. 1848, scheda n. 96, è la seguente «Trovata a ponte rotto nel luogo detto Paradiso alle radici del colle, ove è situato Monteroduni. Il R. Sig. Vicario D. Felice Scioli mio ottimo amico, dotto estimatore degli studi storici, del quale ho raccolto preziose notizie per determinare il corso di quel ramo di via, che passava di sotto a Campo sacco, come dirò a suo luogo, ha collocato questo ed altri bei monumenti nella facciata del suo casino, salvandoli così dal pericolo a che erano esposti di totale deperimento. Maria Felicetta liberta di Caio Mario aveva due servi, uno detto Orsacchio, e l’altro Condizione, che furono si pii, da onorar la loro signora del sepolcrar monumento.» Da notare che il Garrucci riferisce che l’epigrafe fu «Trovata a ponte rotto nel luogo detto Paradiso alle radici del colle.» Si osserva, però, che in contrada Paradiso non esiste alcun “ponte rotto”. Forse, dando per vera la notizia riportata dal Canonico Scioli che il ritrovamento sia invece avvenuto in contrada Cupelle, il “ponte rotto” potrebbe essere ponte Latrone, e il Garrucci confonda la località in cui sorgeva il Casino con quella del ritrovamento.
Vano interno del Casino, dove è stata utilizzata un’antica colonna a sostegno delle volte
Proprio di fronte al Casino di Don Felice, dall’altra parte della strada, e in un altro terreno limitrofo, il prof. Carlo Peretto dell’Università di Ferrara, lo scopritore dell’Homo Aeserniensis, con due campagne di scavo nel 2008 e nel 2014, rinvenne dei bellissimi bifacciali risalenti all’età acheuleana – circa 400 mila anni a.C. – (vds. Archeomolise, n.1, luglio/settembre 2009, e Annali dell’Università di Ferrara, vol. 10/11, 2014). Poi, nel 2015, sempre lo stesso prof. Peretto, qui rinvenne anche una zanna di mammut.
I bellissimi bifacciali acheuleani in selce di Guado San Nicola (circa 400.000 a. C.)
Suggestiva rappresentazione della vita nel villaggio di Guado San Nicola (immagine tratta da Archeomolise n.1/2009)
Il Cammino prosegue il suo percorso, e dal colle di Guado San Nicola imbocca la strada per il Colle delle Api (meglio conosciuto a Monteroduni come i Colli). I terreni di questa contrada, unitamente a quelli delle limitrofe contrade Selvotta e Sterparone, grazie alle loro favorevoli caratteristiche geo-pedologiche, sono particolarmente vocati per la coltura della vite. Fino a qualche decennio fa, rigogliose vigne di montepulciano, sangiovese, bombino, ricoprivano interamente i Colli: in pratica, ogni famiglia di Monteroduni aveva qui la sua piccola vigna, dove raccoglieva le uve impiegate per produrre i pregiati e molto rinomati asprini rossi.
Il Cammino da i Colli raggiunge la Selvotta e scende alla Lorda, importante affluente del Fiume, che oltrepassa e arriva alla fertilissima contrada Campora. Qui, con una deviazione a destra, imboccando la strada comunale omonima che percorre le contrade Valle Scossa e Sterparone, è possibile raggiungere, dopo meno di due chilometri, il colle di S. Maria in Altissimis, dal quale si gode una bella vista sull’intera piana ed è anche visibile, alle spalle delle montagne di Venafro, il cocuzzolo acuminato di Monte Cairo, la montagna dell’Abbazia di Montecassino.
Ortofoto della zona (da Google Earth) con l’indicazione dei luoghi descritti. Il Fiume, diventato irriconoscibile, è sulla sinistra
Sul colle ci sono ci sono i resti del monastero di S. Maria in Altissimis, fondato dai monaci della vicina importante Abbazia altomedievale di S. Vincenzo al Volturno, da qui ugualmente visibile.
I resti della chiesa di S. Maria in Altissimis
Interno
Portone principale e abside
Particolare del muro di uno dei due fabbricati, riportati anche sulla mappa catastale (Foglio 2) che sorgevano vicino alla Chiesa
La prima citazione documentale del monastero è contenuta (vds. F. De Vincenzi-D. Monaco, Permanenze architettoniche benedettine dell’VIII-IX sec., Almanacco del Molise, anno 1985) nella lista delle chiese soggette alla decima sessenale nella diocesi di Isernia nell’anno 1339.
Da “Rationes decimarum Italiae, Aprutium-Molisium”, a cura di P. Sella, Città del Vaticano, 1936
Un ulteriore riferimento documentale è una lapide del 1651 murata nella chiesa di S. Michele relativa a un lascito testamentario di Scipione D’Afflitto a favore dell’abate del monastero. Sopravvive anche il ricordo della tradizione, richiamata da Don Antonio Mattei, di svolgere una processione dal paese fino alla chiesa nel giorno di Lunedì in Albis, tanto che questo giorno è chiamato ancora Santa Maria Utis'ma.
Lapide murata nella Chiesa di S. Michele Arcangelo
Su questo colle, inoltre, ricco di reperti lapidei e ceramici, e sui vicini Colle Forche e Colle del Lago, qualificati storici e archeologi ritengono che nel 90 a.C. si svolse un importante episodio della Guerra Sociale tra l’esercito romano di Silla e gli insorti municipi italici riuniti nella Lega Italica, la cui capitale era stata stabilita ad Isernia. Qui non è difficile rinvenire anche delle glandes plumbae (ghiande fromboliere).
Il sito di S. Maria in Altissimis è stato oggetto, negli ultimi decenni, di ricerche da parte di diversi autorevoli studiosi. Oltre ai citati Francesco De Vincenzi e Davide Monaco, se ne sono occupati anche Richard Hodges, lo scopritore di S. Vincenzo al Volturno, Franco Valente, Domenico Caiazza, Michele Raddi, Paolo Nuvoli, Isabella Santillo, Don Antonio Mattei, Giuseppe De Giacomo, e tutti ne hanno evidenziato la rilevanza. Ai loro studi si rinvia per gli approfondimenti, e si auspica che future e più puntuali ricerche possano portare alla luce sia i resti del monastero medievale che eventuali altri resti risalenti ai periodi precedenti.
Il Cammino fa quindi ritorno alla contrada Campora ripercorrendo la stessa strada dell’andata al colle, e da qui subito si dirige verso la risorgiva – una sorgente in falda freatica – del Laguozzo.
La risorgiva del Laguozzo e sotto i due canali che alimenta
I due canali alimentati dalla risorgiva
Questa importante sorgente perenne alimenta due canali che, dirigendosi in direzioni opposte, servono per l’irrigazione, oltre che della contrada Campora, anche di tutti i sottostanti terreni di Campo Rotunne e Veticalone.
Un ramo di uno dei due canali addirittura sottopassava, con un antico sifone, la Lorda per servire una parte della contrada Cerreto. Dopo la sosta al Laguozzo, seguendo il viottolo che costeggia il corso d’acqua e passa per terreni privati, il Cammino raggiunge la strada comunale Veticalone in località Campo Rotunne, che corrisponde al lembo collocato sulla sinistra della confluenza dell’altro importante fiume, il Vandra, in dialetto La Vandura.
Qui il Volturno – che nasce circa quindici chilometri a monte – lascia la gola che ha percorso dalla sorgente ed entra definitivamente nella piana posta tra le Mainarde e il Matese. Sulla sponda destra della Vandura, ricadente nel comune di Colli, c’è la parte bassa e piana di Valle Porcina, dove il Chronicon Volturnense, del XII secolo, localizza il villaggio di Vaduum Porcinum. Sulla sponda sinistra, invece, che ricade nel comune di Monteroduni, c’è il colle di S. Maria in Altissimis prima visitato.
E il Colle di S. Maria in Altissimis affaccia sulla Vandura con un dirupo noto come Peschio della Vandura. Lì si favoleggiava l’esistenza di un tesoro sepolto in una grotta presente sulla parete e ora nascosta dalla fitta vegetazione.
Il Peschio della Vandura
Il tratto della Vandura situato proprio sotto l’imponente Peschio è invece noto come Tre Marra, per la presenza di tre grandi massi ai bordi del corso dell’acqua fra gigantesche foglie di farfaraccio (in dialetto chiatula) che creano una sorta di piscina naturale.
Intere generazioni di ragazzi, partendo dal lontano paese, lì si recavano, a piedi nella calura estiva, per rinfrescanti bagni. E intere generazioni lì hanno imparato una prima, tanto rudimentale quanto originale, tecnica di nuoto chiamata appunto “alle tre marra”, che consisteva in ritmiche aperture delle braccia, tenendo una sbilenca posizione del corpo, con la testa reclinata su un lato, e i piedi che battevano violentemente colpi sordi sull’acqua. È ancora vivo, nei monterodunesi di una certa età, il ricordo di mille epici episodi che lì si sono svolti: funambolici tuffi dai massi, dimostrazioni di abilità natatorie, fantasiosi ed estemporanei scherzi, mirabolanti catture di pesci nelle “tombe” che, si diceva, erano presenti sotto ai marri.
Tre Marre
I Tre Marre sono raggiungibili solo risalendo a piedi il corso della Vandura dal punto in cui termina la strada comunale. Anche se poco più a monte è stata di recente realizzata una inutile e devastante vasca di laminazione, è un luogo che appare ancora selvaggio, come selvaggio è il tratto che occorre risalire, piedi nell’acqua, per arrivarci.
Punto di partenza della risalita del torrente per arrivare ai Tre Marre, raggiungibile dalla fine della stradina comunale. Sullo sfondo il dirupo del colle di S. Maria in Altissimis che fronteggia Valle Porcina
Tratto immediatamente più a valle del dirupo, con il vecchio ed efficace muro di protezione dalle frequenti esondazioni che tanti danni provocavano ai fertilissimi terreni limitrofi ormai crollato. Subito a monte del muro, la località chiamata “I Cestoni”
Il Cammino quindi arriva al punto in cui la Vandura confluisce nel Fiume, noto come Accucchiatora, dove è possibile sostare in un ombreggiato slargo che affaccia sul Fiume per una colazione e, volendo, iniziare anche da qui la risalita per raggiungere i Tre Marre.
L’Accucchiatora. Il Fiume, sulla sinistra, riceve le acque dalla “Vandura”. Non è difficile incontrare qui l’airone cinerino
I “vrecciari” sono ormai completamente spariti, e il Fiume, a valle dell’Accucchiatora, si è adeguato al cambiamento e si mostra in una nuova bellezza: “Paradise”
Dopo la sosta, il Cammino prosegue tra gli orti della contrada Veticalone per raggiungere il cosiddetto Pozzo Sfondato, una singolare risorgiva perenne da un banco di sabbie sottili, che unisce le proprie acque a quelle della più importante sorgente del Laguozzo.
La piccola “oasi” della risorgiva del Pozzo Sfondato
La polla del Pozzo Sfondato
Il Cammino riattraversa quindi la Lorda, appena dopo il Pozzo Sfondato, e percorre la contrada Macchia Buffetta, toccando di nuovo il Fiume in corrispondenza della “spiaggetta” nota come Paradise, in contrada Limate. Il nome della spiaggetta probabilmente è stato ripreso, agli inizi degli anni ’80, dal titolo di un popolare film di Stuart Gillard.
L’area di “Paradise”
La contrada Paradiso è dominata dal lato che affaccia sul Fiume, chiamato Calaio, dallo stesso “terrazzo fluviale” di travertino già visto a Guado San Nicola.
Contrada Paradiso e il terrazzo di “calcareous tufa”
Qui le acque provenienti da San Nazzaro formano diverse e caratteristiche cascatelle lungo le pareti di calcareous tufa.
Cascatelle del Calaio
Cascata del ponte della ferrovia (foto di qualche anno fa)
Nella risalita del “terrazzo fluviale” si incontrano subito i primi resti che testimoniano l’esistenza di un insediamento romano nella parte alta della contrada Paradiso: si apre così una nuova affascinante pagina sulla storia di questo fazzoletto di terra.
Tanti, infatti, oltre alle lapidi murate del vicino Casino di Don Felice, sono i resti ceramici e lapidei (colonne, trabeazioni, fregi) di importanti costruzioni che si rinvengono nella contrada Paradiso e in quella vicina di Camposacco, che fanno rimando all’esistenza di un tempio e di un insediamento di tipo vicanico, tanto che la presenza, appunto, di un vicus rusticus sull’importante via di comunicazione – la Via Latina – che lì transitava può considerarsi verosimile.
Resti di trabeazione affioranti dalla scarpata stradale
Colonna miliaria di una via romana di primaria importanza (probabilmente la Via Latina) rinvenuta in località Camposacco, conservata al Museo di Santa Maria delle Monache di Isernia
Colonna del Monumento ai Caduti di Capriati al Volturno rinvenuta in località Camposacco/Paradiso
Rudere in muratura romana di un piccolo fabbricato nel recente passato adibito a “rolla"
Alcuni studiosi di storia monterodunese hanno ipotizzato – solo ipotizzato – l’esistenza, in questa stessa località, di un presunto villaggio di nome Rotae.
Stralcio del Segmentum V della Tabula Peutingeriana che riporta la statio di Ad Rotas
L’ipotesi nasceva dal fatto che la Tavola Peutingeriana, una importante pergamena che riproduce gli itinerari stradali della Roma imperiale, riporta la statio o mansio (cioè un luogo di sosta, una sorta di moderna stazione di servizio) di “Ad Rotas” come tappa per chi da Roma entrava nel Sannio. Orbene, le letture della Tabula, fatte dai principali studiosi molisani, come A. La Regina, F. Coarelli, M. Carroccia, I. Bonanni, O. Gentile, G. De Benedictis, portano tutte a ipotizzare la localizzazione della statio in parola proprio nell’attuale contrada Paradiso–Camposacco.
Va osservato, però, che oltre al detto generico riferimento contenuto nella Tabula, non esiste alcun’altra evidenza, o semplice indizio archeologico, che porti in modo chiaro alla localizzazione della statio di Ad Rotas della Tabula nella detta contrada.
Si è visto che, in questa stessa contrada, numerosi sono i rinvenimenti di epoca romana, tra i quali epigrafi di grande interesse, resti lapidei di importanti costruzioni (colonne, trabeazioni, fregi) che ivi sorgevano, e di monete, che fanno rimando all’esistenza di un vicus rusticus. Mai nulla, invece, si è rinvenuto che possa testimoniare direttamente e univocamente l’esistenza della statio di Ad Rotas o, addirittura, del nome Rotae per il villaggio che, verosimilmente, comunque sorgeva nella stessa contrada.
Occorre quindi prendere atto che tra l’Ad Rotas della Tabula e l’ipotetico nome di Rotae del villaggio vi è solo una fin troppo immediata assonanza semantica, e null’altro. Assonanza che, per di più, consente anche un facile, e sbagliatissimo, rimando all’attuale nome di Monteroduni.
L’autorevole studioso monterodunese Paolo Nuvoli, invece, dopo una rigorosa e documentatissima analisi dei percorsi disegnati sulla Tavola, con fondate e convincenti argomentazioni, arriva a localizzare nella contrada monterodunese di Camposacco–Paradiso non più Ad Rotas, bensì la città di Cluturno in corrispondenza del vicus rusticus verosimilmente ivi esistito (vds. P. Nuvoli, La tavola di Peutinger in area sannitica, Edizioni Vitmar, 1996).
Certo è, invece, che a Camposacco, ancora nel medioevo, esisteva la chiesa di S. Giovanni in Camposacco e un villaggio, come testimoniato dalle citazioni contenute nel Catalogus Baronum del 1152 e nella Bolla di papa Alessandro III a Rainaldo vescovo di Isernia del 1172.
Il Cammino, dopo questo ammaliante racconto ha, intanto, fatto ritorno al punto di partenza di Guado San Nicola, anche se un’ultima storia va ancora raccontata. Essa testimonia ulteriormente le antichissime presenze dell’uomo nella contrada, e riguarda gli scavi condotti dalla cattedra di paletnologia dell’Università di Roma tra il 2002 e il 2005 nell’adiacente Camposacco (vds. Conoscenze, rivista della Direzione Regionale per i Beni Culturali del Molise n. 1-2, anno 2005).
Con questi scavi fu rinvenuto un’ampia parte di una struttura di grandi dimensioni risalente al XII secolo a.C., reperti di industria litica e materiali ceramici vari risalenti all’età del Bronzo Tardo (terzo millennio a.C.) tra i quali un frammento di ceramica figulina tornita che richiama produzioni di tipo miceneo, grandi vasi per la conservazione di prodotti alimentari, una piastra di cottura, un focolare e, nei livelli antropici più in profondità, manufatti in pietra scheggiata.
Ceramica dipinta con un motivo a spirale rinvenuta a Camposacco
Il Cammino, che ha percorso le strade di una campagna molto generosa, “baciata da Dio” come qualcuno ha detto, intensamente e sapientemente coltivata dalla notte dei tempi, e di un Fiume, il Volturno, che oggi quasi si nasconde, come per proteggersi perché impaurito dalle aggressioni ricevute nell’ultimo quarantennio, ma che conserva ancora angoli incomparabili, ha termine nel luogo, il Guado San Nicola, crocevia di tante e tante fascinose narrazioni.
Si fa ritorno a casa rapiti dalla bellezza e dal turbinio di storie che, attraversando secoli e millenni, hanno fin qui raccontato il grande intreccio tra terra e umanità. Le storie però non sono finite, e il nostro Fiume serba altri luoghi da scoprire. Ci aspetta allora la seconda parte del Cammino del Fiume, quella che verrà percorsa a valle della ferrovia.
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